Frammento (XXXII)

XXXII

Al calore brindo con il mio vapore./
Anche tu, bevi le mie gocce!/

Gioia./
Gloria in terra.
Illustrazione per "Ars Amatoria" di Ovidio, Enrico Ratti (2017)

Frammento (XXXI)

XXXI

Scenderò dal ramo,/
scenderò sulla terra,/

scenderò all'ombra./
All’ombra cercherò luce./

Poi scenderò nella terra,/
scenderò là dove si radica la vita alla radice./

Perché se all’ombra luce non c’è/
alla radice delle cose dovrò scendere/
per vedere che vita è.
Foto credit Marcello Mantegazza (2017) 

Frammento (XXX)


XXX
Zahra Saberi (2018) 

Amami ovunque./
Amami sotto di te./
Amami sopra di te./

Sono un gambo inarcato,/
sono una bocca che sboccia./

Sono un arco di trionfo/
per le tue dita che sfilano/

lungo il corso/
del mio corpo./

Amami ovunque./
Amami sotto di te./
Amami sopra di te.

(pubblicato su www.rivistagradozero.com)

Frammento (XXIX)

XXIX

Una goccia/
è l'amore/
di sudore/
su un dito che m’abbraccia/
sfinito.

Non so se ho un'anima ma di certo ho una tomba. Filosofia in versi

Che ci piaccia o no, il filosofo non è un essere modesto, non lo può essere, la modestia piace soltanto ai miserabili, i quali non avendo del loro vorrebbero tassare quelli che hanno e portargli via tutto. Un uomo che intenda vivere con la benevolenza degli uomini non sarà mai un filosofo. Così Arthur Schopenhauer: “La miserabilita’ dei più costringe i pochi uomini geniali o meritevoli ad atteggiarsi come se ignorassero essi stessi il proprio valore e di conseguenza la mancanza di valore degli altri: solo a questa condizione la massa è disposta a sopportare i meriti. Di questa necessità, ora, si è fatta una virtù, che si chiama modestia. È un’ipocrisia che viene scusata dall’altrui miserabilita’, la quale vuol essere trattata con riguardo” [1]. In verità il nostro buon Schopenhauer “non ama nessuno, né i dotti né gli ignoranti: in questo è il suo egualitarismo. Non v’è numero di parole che faccia di un uomo un dotto o un ignorante ma il possesso dell’intelletto che tutto muove, anche se stesso, e che sta come goccia nel deserto e condanna alla morte di sete” [2].
Il “più orgoglioso fra gli uomini, il filosofo, crede che da tutti i lati gli occhi dell'universo siano rivolti telescopicamente sul suo agire e sul suo pensare” [3]. Con quanta venerazione di sé il filosofo parla quasi avesse una nascita sua propria in cielo e di vivere la morte dei mortali non gli va. La vita naturale del filosofo è in cielo. Di più, la filosofia è “figlia del cielo” [4]. E mentre starà morendo vorrà fare della morte, della sua morte, un problema discutibile; meglio che il niente sia vero altrimenti a che gioverebbe annientarsi? Abborracciare la propria dipartita?: mai! Irresistibile sino alla fine, potrebbe chiudere la sua carriera con i versi “Non so se ho un'anima ma di certo ho una tomba” [5] o con i versi del poeta Arthur Rimbaud “Che cosa è mai il mio nulla, in confronto allo stupore che vi attende?” [6].
Ah la poesia!

La Morte al Filosofo 

Di tante morti e di tanti uomini, oggi siamo tu ed io. 

T’avrei forse dimenticato? 

“Io sono perché tu sei” [7] - sic et simpliciter
- e oggi mi giova venire da te. 

Il Filosofo alla Morte 

So da dove vieni (da me stesso). 

Sopporto me ma non sopporto te - hoc est ridiculum. 

L’ascensione di una mosca è meno rumorosa.
Ah l'ironia! (che si chiama anche “spirito”). Schopenhauer, che era uno che se ne intendeva, giocando con le lettere fece una stortura chiamando mortura la natura [8]. La morte è uno di quei fenomeni che raramente richiedono una dimostrazione. Come la si veda, il risultato finale è uguale per tutti, filosofi e uomini. Ma il filosofo, poiché sarà uomo di spirito anche da morto e volendo osservare meglio ciò che gli sta sopra e ciò che gli sta sotto, si punterà sui piedi o sulla testa ( “Innalzate I vostri cuori, fratelli miei, su, più in alto! E non dimenticate le gambe! In alto anche le gambe, o bravi ballerini; anzi, meglio: camminate con la testa all’ingiu’!” [9] ) e scopertolo avrà l’incontenibile desiderio di farci ancora poesia o ironia. 




[1]A.Schopenhauer, O si pensa o si crede. Scritti sulla religione, BUR, Milano, 2015, pag. 40. Ancora sul concetto che il filosofo non può essere modesto: “Nelle teste mediocri la modestia è pura sincerità, nei grandi talenti è ipocrisia”, cit., pag. 42
[2]dal mio Schopenhauer e la minestra riscaldata, articoletto (2018) pubblicato sulle riviste on line ElecToRadio (https://www.electoradio.com/mag/accademia-dei-pugni/schopenhauer-la-minestra-riscaldata/) ed EreticaMente (http://www.ereticamente.net/2018/04/schopenhauer-e-la-minestra-riscaldata-alessandra-pennetta.html)
[3]F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano, 2015, pag. 12
[4]A.Schopenhauer, cit., pag. 56 Religione e filosofia non possono stare nello stesso cielo secondo Schopenhauer ma la polemica che egli fa non rileva qui, volendo significare piuttosto la natura alta del filosofo che vive e muore distaccato già in partenza dal mondo
[5]versi miei. Mi sono stati ispirati dalla Preghiera di uno scettico di Schopenhauer, cit. pag. 45: “Dio - se ci sei - salva la mia anima dalla tomba - se io ho un’anima”
[6]dalla poesia Vite in A. Rimbaud, Libro pagano, trad. di A. Castronuovo, Stampa Alternativa, Viterbo, 2014, pag. 32
[7]versi miei dal Frammento XI (2018): “Io sono la morte,/io sono perché tu sei (...)”. Al lettore attento non sfuggirà di certo, sottinteso alla poesia, il concetto filosofico, facilmente intuibile per esperienza diretta, della correlazione secondo cui due cose esistono in quanto sono in relazione tra loro, ad esempio vita e morte
[8]così Schopenhauer: ”Natura è un'espressione corretta ma eufemistica: con uguale diritto si potrebbe chiamarla mortura”, voce La natura in L’arte di insultare, Adelphi, Milano, 2017, pag. 107 [9]F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit. in F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Rusconi Libri, Santarcangelo di Romagna, 2010, pag. 16

(pubblicato su www.progettoprometeo.it) 

Frammento (XXVIII)

XXVIII

Cosa può darmi la tua bocca?/
Un tocco, un respiro, un sospiro./
Cosa può darti la mia bocca?/
Un tocco, un respiro, un sospiro./
Cosa possono darsi due bocche che si toccano?/
All'andata un respiro,/ al ritorno un sospiro.

Frammento (XXVII)

XXVII

Mi si è sfilato un filo di vita./
Lo stringo con un fiocco - mi ci strozzo!

Frammento (XXVI)

XXVI

Da un buco nella terra/
sbuca un verme,/
da un ciuffo d’erba/
sbuca un dito./

Dice il verme al nuovo compagno (al dito):/
- prima di te ho imparato a strisciare!/

Dice il dito al verme:/
- no, amico mio,/
tu sei verme ma io son dito,/
m’abbasso,/
mi levo,/
ma non striscio.

Frammento (XXV)

XXV

Ed io e l'uomo./
Marcello Mantegazza (2016)
E Dio e l'uomo./
Ed io e Dio. 

Frammento (XXIV)

XXIV

Puoi cavare la terra/
ma non il cielo./
Puoi cavare l’osso/
ma non l'anima./
Puoi cavare il sasso/
ma non la montagna./

Enorme è la china di Dio/
che tu vuoi risalire/
credendo di arrivargli agli occhi/
e vedendo da lassù/
credere quaggiù./

Frammento (XXIII)

XXIII

Potrei vivere/
in un punto senza interrogativo?/

.

Guarda com’è piccolo un punto senza la domanda./
No, non potrei vivere/
in un punto e basta.

Frammento (XXII)

XXII

“Cosa posso fare per te?” mi disse la bocca./

“Voglio guardare dentro di te” risposi/
“sino a dove nasce il fiume nella grotta/
e con le dita pescatrici/
portare alla luce i tuoi sospiri”.

La verità dell'intelletto

C'è chi gonfia le guance nella convinzione di poter aspirare a tutte le verità del mondo per poi
soffiare il nulla come un mantice bucato.
Friedrich Nietzsche
Vi fu un tempo in cui l'intelletto umano non esisteva ma ora esso esiste e cerca pure di spingersi al di là e al di sopra della sua condizione strettamente umana, sottraendosi all'infelicità del deserto terrestre, di tanto in tanto sollevando lo sguardo al cielo e innalzando di qualche metro ancora la cupola concettuale eretta in secoli di costruzione del pensiero. Poiché tuttavia il cielo delle verità metafisiche è un territorio praticabile soltanto dal basso il rischio è che la teoria filosofica sia una volta magnificamente affrescata ma invisibile. Si vorrebbe allora, a Dio piacendo, che almeno qualcuna di queste verità scendesse dal cielo come raggio di luce a fissarsi sulla nostra fronte, attraversandola da parte a parte (verità rivelate). Ma che proceda in altezza o in profondità, l’intelletto vivrà sempre la contraddizione del dubbio. Un verme, assai più attaccato alla terra, o un uccello in cielo sanno quanto basta per andare avanti senza doversi porre domande sulla propria esistenza come fa l’uomo.
L’intelletto non vive separato dal resto del corpo, anzi  è nella natura umana di legarlo visceralmente ad esso, sottoponendolo alle forze stesse della natura, facendolo vibrare sotto i colpi delle fatiche dell'esistenza. È vero quel che Friedrich Nietzsche ha scritto e cioè che l’intelletto è un mezzo per conservare l'essere umano che altrimenti scomparirebbe assai più rapidamente sulla faccia della terra. Ecco perché l’uomo ha delle preferenze per quelle verità le cui conseguenze gli appaiono piacevoli per la sua conservazione: “egli desidera le conseguenze piacevoli - che preservano la vita - della verità, è indifferente di fronte alla conoscenza pura, priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive” [1].
L’uomo si salva aggrappandosi a travi di concetti positivi [2], a colpi estenuanti di verità costruite creativamente, sfidando le leggi fisiche, sulla sabbia dell’astrazione, tuttavia, di tanto in tanto, in bilico tra essenza e parvenza, scivolando all’indietro quando lo sguardo è tormentato dal vuoto o l'occhio è ingannato dalla apparizione di una finzione.
Nietzsche, quando dice che le verità sono come il metallo rimasto di una moneta ma non sono più monete, intende dire che le verità umane non valgono più di quel che sono fatte, levigando l’intelletto con gusto creativo la superficie dei concetti a formare una piacevole immagine astratta.  
In una ricostruzione filosofica delle verità, il filosofo risale con l'immaginazione sino al primo intelletto comparso sulla terra quando apparve, mitica come una vergine dea olimpica, una verità primigenia. Essa, fertile, sparse sulla terra la sua “qualitas occulta [3 ] affinché dalla prima potessero nascere tutte le altre verità. Essa ci fa dire che non esistono due foglie uguali ma di due foglie nessuno può dire che una lo è e l'altra no perché ambedue hanno quel qualcosa che è foglia che le fa veramente essere entrambe foglie ai nostri occhi. Inoltre, io dico che questa cosa è una foglia perché qualcuno prima di me ha detto che è una foglia e qualcun altro prima di lui ha detto la stessa cosa e così via dicendo. Le verità acquisite addormentano l’uomo desto che non ha più nulla da scoprire e nel sonno l’intelletto scopre soltanto la finzione, occupandosene allo stesso modo che si occupa della verità. “Pascal ha ragione quando sostiene che, se ogni notte ci si presentasse il medesimo sogno, noi ci occuperemmo altrettanto di esso quanto delle cose che vediamo ogni giorno: <<se un artigiano fosse sicuro di sognare ogni notte, per dodici ore filate, di essere re, io credo allora>> dice Pascal <<che egli sarebbe altrettanto felice quanto un re che sognasse tutte le notti, per dodici ore, di essere un artigiano>>” [4]. Per spiegare la metamorfosi della finzione in verità Nietzsche risale all'antica Grecia: “Quando ogni albero può avere l'occasione di parlare, nascondendo una ninfa, quando sotto la figura di un toro un dio può trascinar via le vergini, quando la stessa dea Atena viene vista improvvisamente, su un bel cocchio, attraversare le piazze di Atene in compagnia di Pisistrato - e tutto ciò è creduto dagli onesti Ateniesi - allora in ogni momento tutto è possibile, come nel sogno, e tutta la natura si agita attorno all'uomo, quasi fosse unicamente una mascherata degli dei, contenti di fare uno scherzo all'uomo con ogni specie di metamorfosi ingannevoli” [5]. Occorre capire gli antichi Greci come i moderni: se presa per vera, la verità è degna di fiducia perché non mente.




[1] F.Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano, 2015, pag. 15
[2] Così Nietzsche: “Quella enorme impalcatura e travatura di concetti, aggrappandosi alla quale il misero uomo riesce a salvarsi lungo la sua vita”, cit., pag. 33
[3] cit., pag. 19
[4] cit., pag. 31
[5] cit., pag. 32

(pubblicato su www.progettoprometeo.it)

Frammento (XX)

XX

Mai doma la tua bocca/
ama amando riamata riama./
Non sembra più lei,/
stravolta,/
appagata.

Frammento (XIX)

XIX

Posati sulle mie labbra/
che della tua bocca hanno la forma./

Posati con un bacio,/
posati con un altro,/
posati con un assalto.

Europa: questo nome ci demmo

Europa: questo nome ci demmo.
Oggi è un buon tempo per meditare, domani forse no.
Allegro mi è il conversare sull’Europa ma mi è triste il constatare la perdita d’udito in te che non vuoi ascoltare. Stolto, non me, che percuoto soltanto l’aria, ma l’eco della Storia non vai sentendo?
Un tempo sostavi dinanzi alla chiesa, ora t’annoia [1]. Ma chi credi di essere? Di te che sai? Non fare il filosofo, se non lo sei, né l’uomo di scienza, se non sai.
È un sentimento antico quello che ci fa dividere la Storia dell'uomo in un avanti o dopo la nascita del Cristo. Ti parlerebbe Erasmo da Rotterdam della pace tra te e i tuoi vicini ed Ernst Junger della guerra. Tu invece vivi così: come nella sua unica stagione la foglia o come l'ombra nel suo transito, incosciente sulla terra; tu stai come nei suoi versi la poetessa Wislawa Szymborska: “ieri mi sono comportata male nel cosmo./ Ho passato tutto il giorno senza fare domande,/ senza stupirmi di niente” [2]. Ma Platone ed Aristotele vollero che proprio lo stupore sia all’origine della tua facoltà di conoscere te stesso e le cose.
Frena la tua inclinazione alla presunzione per non cadere, non farti più grande di quel che sei e di quel che sai come quel piccino che, volendosi innalzare, restitui il libro lamentandosi che esso era troppo infantile e stupido: infatti “una madre aveva dato da leggere ai figli le favole di Esopo per istruirli e migliorarli. Ma ben presto i bambini le riportarono il libro, e il maggiore disse in modo presuntuoso: <<Questo libro non fa per noi! È troppo infantile e stupido. Che volpi, lupi e cornacchie sappiano parlare è un’assurdita’ che non può più abbindolarci: già da molto tempo abbiamo superato simili buffonate!>> [3].
Medita sulla tua età. Medita sulla tua altezza. Un solo Arthur Schopenhauer abbiamo avuto e si vanto’ “chi mi vorrà superare potrà andare in larghezza, ma non in profondità” [4]. Medita sulla pace. Medita sulla guerra, non soltanto su quel che è facile. A Junger soldato (*) fu chiesto: “sia così gentile da raccontarci cos’ha pensato quando era là fuori (**). Dev’essere stato terribile, vero?” [5].
Pensieri là fuori.
Pensieri di guerra.
Pensieri rapidi.
La morte sul campo di battaglia combatte, corre a destra e a manca.
Un pensiero di morte dalle labbra fuoriesce in un sibilo: l'ultimo respiro.
Tranci di pensieri umani.
Ma a sera si torna a sperare [6].
Tu vivi la grande Storia dell'umanità pur vivendo la tua piccola storia di uomo ma come non lo sai. Oswald Splengler ha osservato che “vi è una storia per ogni uomo, in quanto ogni uomo con tutto il suo essere e la sua consapevolezza fa parte della storia. Ma vi è una grande differenza a seconda che il singolo viva nella sensazione costante che la sua vita è elemento di qualcosa che si sviluppa in secoli e in millenni, oppure che egli si consideri come alcunché di compiuto e di chiuso in sé stesso” [7].
Immagina due lumache che conversano dell'Eternità [8]: così sono gli uomini; rispetto ad essa la Storia è in ritardo ma per l’avvenire fa la sua corsa.
La Storia ti appare per ciò che è, per analogie ed opposizioni [9], e tu stai in mezzo, ai corsi e ricorsi, saltando a piè pari antichissime convinzioni. Se poi non sai perché sei qui, cosa ti muove? Spengler ha usato una bellissima espressione: filosofia dell’avvenire [10]. Il filosofo pensa ad una filosofia del movimento: l’uomo è in movimento, la Storia è in movimento. Ora, un capello tra i capelli è un particolare invisibile e insignificante. Ma la facoltà di vedere un movimento come quello determinante, o più determinante, tra tutti i movimenti in atto, per l’avvenire, o come quel movimento prolungato, ancora oggi agente dal passato, piuttosto che uno limitato al presente, coinvolge ben più della piatta vista, coinvolge la conoscenza. Sandor Marai ti direbbe che bisogna “conoscere tutti i particolari, perché non possiamo sapere quale sarà importante in seguito” [11].
Ciò che tu dimentichi lascia un vuoto nella tua memoria - memoria che Spengler chiama organo storico [12]. Ciò che viene dimenticato, o negato, non potrà tuttavia “non essere mai stato” e, per quanto breve possa essere stato il suo ricordo, avrà comunque lasciato un indizio, una traccia, intorno a sé. I confini di una memoria toccano i confini di un'altra e la memoria di un uomo diventa la memoria di un popolo e poi di una civiltà perché la storia di un individuo diventa la Storia di un popolo e di una civiltà. Così, ad esempio, Maria ed il popolo ucraino che - negli anni Trenta del secolo scorso - ha fame e muore sono la stessa cosa, vivono la stessa Storia, hanno la stessa memoria: “Alla fine, la morte era ovunque. La vita dov'era finita? Quand'è che ricomincia? Intorno la gente moriva sul colpo. Perché morivano? La tragedia di Maria era sconfinata” [13]. Medita, tu, che per una minuscola zanzara sei il centro del suo mondo, tanto ti gira intorno, tu, un giorno, potresti morire come una mosca: “La gente iniziò a cadere morta come le mosche d’autunno” [14].
Perciò sappi da dove vieni e dove vai, non come un'ombra in transito ma per esistere e rimanere.
Vivi come vorresti che vivesse il tuo popolo e la tua intera civiltà: questo è il mio invito.
L’Europa esiste ed “è la sua storia” [15]. La vita dell’Europa è la sua stessa Storia e la sua Storia, a sua volta, è la sua memoria. A te, e agli altri, spetta di ricordare.



[1]Così Wilhelm Ropke in Al di là dell'offerta e della domanda. Verso un'economia umana: “Benché l’uomo sia innanzitutto homo religiosus (...), della spaventosa scristianizzazione e laicizzazione della nostra civiltà nessuna persona onesta verso sé stessa può ormai dubitare”, cit. in D.Antiseri, L’anima greca e cristiana dell’Europa, Editrice Morcelliana, Brescia, 2018, pag. 55
[2]W.Szymborska, Disattenzione, cit. in C. Ossola, Europa ritrovata. Geografie e miti del vecchio continente, Vita e Pensiero, Milano, 2017, pag. 51
[3]voce I razionalisti illuminati, in A. Schopenhauer, L’arte di insultare, Adelphi, Milano, 2017, pag. 115
[4]voce La filosofia futura, cit., pag. 66
*il filosofo combatte’ la Prima Guerra Mondiale
**fuori dalla trincea
[5]E.Junger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, Prato, 2017, pag. 128
[6]Mi vengono qui in mente i versi di Joseph von Eichendorff: “Ciò che oggi stanco tramonta,/ si leva domani rinato”, cit. in C. Ossola, pag. 44
[7]O.Splengler , Il tramonto dell’Occidente, trad. di J.Evola, Longanesi, Milano, 2017, pag. 21
[8]prendo questa deliziosa immaginetta in prestito dalla poesia Andare a Leopoli di Adam Zagajewski, cit. in C. Ossola, pag. 49
[9]Splengler usa il termine polarità, cit., pag. 14
[10]cit., pag. 17
[11]S.Marai, cit. in C. Ossola, pag. 47
[12]cit., pag. 22
[13]questo brano è tratto dal romanzo di Ulas Samchuk Maria: cronaca di una vita, cit. in C. Ossola, pag. 53
[14]ancora dallo stesso romanzo di Samchuk, cit. in C. Ossola, pag. 53
[15]D.Antiseri, cit., pag. 15

(pubblicato su www.ereticamente.net)

Frammento (XVIII)

XVIII

"Io t'amo"/
ed è un tremore sul labbro.

Frammento (XVII)

XVII

Scenda una lacrima,/
una soltanto./
Scenda una lacrima/
sul labbro torto dal pianto./
Scenda una lacrima,/
sempre la stessa,/
perché è la più amata/
avendo essa amato.


La maffia (la mafia con due effe)

“Se ne è parlato tanto, si è fatto tanto abuso di questo vocabolo che, francamente lo dico, non se ne può più sentire parlare senza provare un senso di nausea e di disgusto” [1]: discorso pronunciato da Roderico Pantaloni, Procuratore Generale del Re presso la Corte di appello di Palermo all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Corre l’anno 1902.
Dunque la mafia è un fenomeno storico,  che il giudice Giovanni Falcone conosceva bene. All’inizio della sua storia è una delle tante forme di malavita organizzata e in età borbonica è stata preceduta dalla malandrineria ma la sua proto-storia può essere fatta risalire sino alla prima metà dell’Ottocento e al fenomeno dell’abigeato. Nel 1865, due anni dopo la rappresentazione teatrale de I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca, viene impiegato per la prima volta ufficialmente il termine maffia. L’inchiesta Bonfandini del 1875/76 conclude che la mafia “non va sopravvalutata più di tanto” [2]. Nel 1889 Giuseppe Pitre’, medico e intellettuale di Palermo, nega che essa abbia  natura associativa. Durante il processo per l’omicidio di Emanuele Notarbartolo di San Giovanni (1893), già Direttore Generale del Banco di Sicilia, il teste Ignazio Florio, interrogato, risponde: “La mafia nelle elezioni! Mai! Mai!” [3]. Ma è ormai chiaro il coinvolgimento della mafia nelle vicende elettorali. Notarbartolo è vittima del clientelismo politico-mafioso. Il rapporto organico tra la mafia e le istituzioni, che viene spiegato dal questore Ermanno Sangiorgi in una serie di 31 rapporti stilati tra il 1898 ed il 1900, distingue a questo punto la mafia dalle altre organizzazioni malavitose e storicamente la caratterizza. Questo rapporto insidia la cosa pubblica attraverso la reciprocità di favori tra mafia e istituzioni. Sangiorgi è “il primo funzionario di polizia a comprendere il carattere unitario della mafia” [4]: “in quasi tutti i comuni della provincia di Palermo esistono da lungo tempo valide ed estese associazioni di malfattori, fra loro connesse in relazione di dipendenza ed affiliazione, formandone quasi una sola vastissima” [5]. Bisogna spostarsi di circa cento anni quando tutte le caratteristiche principali del fenomeno mafioso, già lungamente esperite dal territorio e dalla popolazione (vincolo associativo, intimidazione, assoggettamento, omertà), vengono finalmente riconosciute a livello legislativo. La legge n.646/1982, nota come legge Rognoni-La Torre, introduce nel diritto penale il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis). Sino ad allora c’è una lunghissima e colpevole sottovalutazione del fenomeno in tutte le epoche e a tutti i livelli. Mussolini ha l’errata convinzione che bastino misure di ordine pubblico. Nel 1949 il Ministro dell’Interno Mario Scelba dice in Senato: “si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli colleghi, mi pare che si esageri” [6].  Nel 1962 il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini risponde al Vaticano che la mafia non esiste. Ventiquattro anni dopo, il giudice Giovanni Falcone*  istruisce insieme a Paolo Borsellino, e altri, il primo storico processo del 1986/87. Salta in aria sulla strada di Capaci il 23 maggio 1992. Falcone è l’ennesima, non l’ultima, vittima delle “cose italiane”: la maffia (la mafia con due effe) è infatti qualcosa di non unicamente siciliano ma di tipicamente italiano.




[1] A. Nicasio, “Mafia”, Bollati Boringhieri, Torino, 2016, pag. 12
[2] cit., pag. 23
[3] cit., pag. 30
[4] cit., pag. 33
[5] cit., pag. 33
[6] cit., pag. 36

* La particolare figura di questo giudice merita ampio spazio, più di quanto gli sia stato concesso di vivere dalla politica e dalla società civile dell’epoca. A questo proposito, si segnala l’attività dell’Associazione “Scorta Falcone - Quarto Savona Quindici” e di Luciano Tirindelli, già membro della scorta; si segnala anche il sito www.quartosavonaquindici.com

(pubblicato su www.electoradio.com/mag)

La questione a Destra

“Ogni osservazione richiede la giusta distanza. Spaziale, temporale e spirituale”: parole di Junger che risalgono attuali.
Prendete un angolo di Storia, giratelo, capovolgetelo e nulla sarà più come prima.
Differenti punti di vista danno differenti orizzonti ma più dell’orizzonte conta la posizione da cui si guarda: si scelga un punto, lo si scelga bene, dove si riceva bastante luce per dominare il tempo e lo spazio. L’orizzonte per quanto vasto è sempre, all’estremo, un punto infinitesimale e preciso. È però necessario sapere cosa quel punto deve contenere. Il momento dell’esperienza deve guidare ma è la volontà, se sa ciò che vuole, a indirizzare.
Non ci si comporta come studenti al primo anno né come quelli all’ultimo anno sventolando i libri in aria come se ci si fosse impadroniti della Storia.
Con quale idea, con quale forza oggi è possibile parlare di Destra se non si sa neppure un corso d’acqua da dove viene e dove va. Il corso d’acqua è la Storia. Ci si prepari allora ad un’escursione, fatta con dovizia di osservazioni e particolari affinché nulla sfugga al senso della questione.
La questione a Destra è politica o sociale? è presente o futura? sta al di qua o al di là di cosa?
Le domande più inquietanti le fanno i grandi spiriti, acque mosse, onde che cambiano inaspettatamente ogni aspetto sonnecchiante della vita. Il mondo si solleva. L’occhio della Storia si apre ad osservare e coglie il felice cambiamento mentre tutto intorno il nulla evapora.
Io vi dico che è preferibile metter mano coraggiosamente sul fil di ferro che sembra circondarci dopo tanto tempo e ricavare un nuovo passaggio piuttosto che seguire i sentieri già mangiati dalla coalizione di pecore.
Bisogna essere volitivi ma bisogna volere nel modo giusto. L’asse della terra è immaginario eppure attorno ad esso ruota tutta la vita.  Così la Storia, anch’essa ha il suo asse ideale.
Ma ci vuole intelligenza incandescente per fondere così bene le cose della vita e della Storia. 

(pubblicato su www.atuttadestra.net)

Junger e la battaglia come esperienza interiore*

“E l’essere umano è buono. Altrimenti come ci si potrebbe addossare gli uni agli altri? Ognuno sostiene di essere buono. Nessuno ha attaccato. Tutti sono stati aggrediti” [1]. 
Ernst Junger
La pace, prima di diventare tale, ha fatto la guerra. Ci avete mai pensato?
Ogni uomo si comporta come è nella sua natura. Gli uomini uccidono altri uomini perché in loro è naturale farlo: “per prima cosa siamo esseri umani (...) Ma proprio perché siamo esseri umani verrà sempre il momento in cui dovremo saltarci addosso” [2], per un sogno di conquista, un desiderio di vendetta, una volontà di rapina. Perciò Junger scrive  “vivere significa ammazzare” [3]. Ci vuole una punta ben arrotondata per far passare un uomo per un instancabile cacciatore di mosche [4] piuttosto che per un assassino consumato.
Il bambino che roteava i pugni chiusi è oggi il pacifista che con le mani in tasca “va a vedere gli incontri di boxe” [5].
La pace è la superficie fredda di un’anima morta. La guerra, intesa come battaglia interiore, sgorga come lava sensibile e onnipotente dal cratere dello spirito ardente quando  ha rotto ogni limite [6]. La battaglia è anche una forma di vita, la cui intuizione virile pulsa come sangue vivo e in salute nel polso di colui che è predestinato. “Solo chi è forte tiene il proprio mondo in pugno: il debole è destinato a farlo evaporare nel caos” [7].
Junger fa uscire l’uomo dalla caverna esistenziale del suo piccolo guscio primitivo per espanderlo e unirlo illimitatamente alla vita; il filosofo infatti demolisce la gabbia della cecità ideologica e il cuore della coscienza riprende a battere illuminato da mille soli detonanti. La luce del cambiamento respira. L’oceano del destino si rovescia sul deserto dei sepolti vivi. L’esistenza scroscia sulla terra scoppiando come un temporale. L’uomo accalorato è nudo sotto il diluvio d’amore, egli ama la vita e la vita ama lui. Mondo interiore ed esteriore si baciano.
Junger è il filosofo combattente o il combattente filosofo (che poi è la stessa cosa) capace di prendere un alito della vostra vita ordinaria, imprimergli forza, farlo crescere sino a trasformarlo in un vento muscoloso che sposta e cambia il futuro.
Mentre il borghese si spegne nell’ignoto come l’effimero fascio di luce al tramonto, l’uomo combattente di Junger è sempre vivo.
La Storia non ama gli uomini proni né addossati al muro della terra di nessuno. La Storia fa il suo corso, gli uomini per lo più fanno la loro vita. Ma voi fate incontrare la Storia e la Vita. Fate incontrare il vostro tempo e il tempo della Storia. Il tempo: il tempo non si ferma mai, non si solidifica. Non fategli un monumento né un sepolcro. Il tempo è sempre vivo, siate vivi voi stessi. Questo è l’invito di Junger.
La vita si tende in interminabili giorni. Meravigliose albe di fuoco eterno. Tramonti rossi che non muoiono mai. Canti primaverili di soldati. Ciò che sembrava destinato a perire nella vecchia vita, anzi non-vita, ora vive e combatte.
“Cosa c’è di più sacro di un essere umano combattente?” [8]
Nei boulevards il sangue del pacifista scorre festante avanti e indietro come un buon bicchier di vino rosso nella gola dell’ubriaco. È la marcia della pace.
Il giudizio di Junger affonda inarrestabile nella verità della carne: “la propria persona è quanto di più sacro, motivo per cui [il pacifista] fugge o teme lo scontro” [9].
La pace è la superficie levigata come il marmo lucente, lontana, irreale, di uno stesso tavolo da gioco le cui gambe leonine si piegano nel profondo buio di un buco di vita di trincea.
“Si è forgiato il più puro spirito guerriero; si è combattuto, perché era nelle cose” [10].
Il coraggio è “l’assalto dell’idea alla materia” [11] del vaso immobile del mondo e possedere coraggio significa, per Junger, essere all’altezza del proprio destino sotto qualsiasi forma, anche quella del fischio mortale della guerra. C’è un singolo angolo di tempo nella vita di ogni uomo in cui l’esteriorita’ della lotta, cioè il mondo esterno, si spegne come una torcia nell’istante in cui la volontà si accende e ogni ostacolo attorno muore in un lampo [12]. Così, sotto una cascata danzante di fuoco spirituale, esondante dal braciere vulcanico della battaglia interiore, l’uomo viene ribattezzato a nuova e disinibita vita.
L’uomo è finalmente salito sul promontorio dell’universo per gettarsi nell’infinito. È la vittoria della vita spirituale sulla morte.
Il pacifista ha una sola, raffinata, femminile [13], idea: la pace, una graziosa statua emersa dagli scavi dell’umanità. Egli continua a scavare mentre l’umanità affonda e la terra diviene un groviglio di uomini vivi e morti.
Alla radice della lotta non c’è sempre una volontà di morte, a volte è la vita che lotta per vivere. Il pacifista non saprebbe tenere la posizione né andare avanti. Su ogni sporgenza di vita che va sbriciolandosi sotto il peso della Storia troverete un soldato tutt’uno con il suo buco: non può “rimanere là sotto, eppure mostrarsi in superficie era morte certa” [14].
In quale mercato rionale del pianeta morale il pacifista è andato a vendere le sue scarpe tirate a lucido affinché possa dire non ho piedi per marciare?
Il pacifista è l’uccellino che pigola per non uscire dal nido.




* l’articolo è stato sviluppato intorno a due dei 13 capitoli nei quali il libro La battaglia come esperienza interiore di E. Junger (1922) si divide: Pacifismo e Coraggio
[1] E. Junger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, Prato, 2017, pagg. 75-76
[2] cit., pag. 65
[3] cit., pag. 57
[4] “Ma quando sei tu, in piena goduria, a startene accovacciato dietro la mitragliatrice, quel movimento là davanti altro non è che una danza di mosche”, cit., pag. 65
[5] cit., pag. 56
[6] “Le vere fonti della guerra sgorgano dal profondo del nostro petto, e tutto l’orrore che poi inonda il mondo è solo un’immagine riflessa dell’anima umana che si palesa negli avvenimenti”, cit., pag. 59
[7] cit., pag. 56. Junger ironizza su coloro che, lontani dal fronte, “si scandalizzavano della guerra per iscritto per poi sostenere di aver avuto il polso della propria epoca!”, cit., pagg. 79-80
[8] cit., pag. 66
[9] cit., pag. 56
[10]  cit., pag. 71
[11]  cit , pag. 66
[12] “La perfezione. Ecco il punto. Lo spingersi agli estremi delle proprie capacità, il modellare la realtà nella sua forma più pura”, cit., pag. 76
[13] “Esiste un solo punto di vista per contemplare il fulcro della guerra, ed è quello mascolino”, cit., pag. 72
[14]  cit., pag. 63

(pubblicato su www.ereticamente.net)

L'eros alla maniera di Junger

Gli orologi tacciono. Le bocche si fanno delle promesse e delle offerte. Il respiro si stacca dall’io ed 
Zahra Saberi, 2017
entra nell’infinito. Come una fiaccola la carne. È l’eros alla maniera di Junger.
Il vino degli amanti carica di ebbrezza le bocche, calici aperti alla gioia.
L’eros è l’aspetto prelibato della vita: la messe del godimento giace raccolta da un unico, selvaggio sorso. Quale migliore immagine sensoriale!
Junger è il filosofo esteta che lascia i sentieri battuti e va incontro al “diluvio di apparizioni sensuali”, attraversa il bosco nero del pudor borghese spogliandosi di inibizioni  ed uscendone correndo con  spirito furente e nudo.
Così l’uomo di Junger: ama apertamente, in piena vita; taglia le briglie delle convenzioni sociali e si lancia allo stremo dell’infinito. Nessun organo cederà alla fatica prima di raggiungere l’oasi, il corpo virile risponde colpo su colpo all’invito della donna.
Ma Junger è anche il filosofo pratico che ha combattuto e che scrive senza lirismi “soldati e ragazze: un’accoppiata vecchia come il mondo”.
Egli solleva le parole come solleva il lenzuolo e ci indica un eros mostruoso il cui atto è “spaventosamente meccanico come la guerra stessa”: impaziente di deflagrare, un flutto schiumoso che irrompe detonando nella cavità della femmina e procedendo con lo stesso ritmo martellante del fronte. Nessun profumo di donna, solo l’odore acre di una civiltà in decomposizione. È l’eros alla maniera di Junger al tempo della guerra.
Due vittime, due brandelli di vita adagiati su un tavolaccio in pose strazianti e smorfie cadaveriche. Non c'è tempo per frammentare il godimento in dolci porzioni. È lo svolgimento della “natura bestiale di un pasto”. “E quando la presa d’acciaio affondava nella carne bianca, si levava una risata ubriaca”.
Non tutti però allungano bestialmente il collo e la mano sulle sconosciute. C’è anche un essere rimasto umano che illumina la sua ultima notte al chiarore vellutato della pelle intatta  della sua prima amante e poi, domani, finirà “sotto la grandine dei proiettili con i baci ancora tra i capelli”.

(pubblicato su www.electoradio.com/mag)

Per una Storia d'Europa. La promessa del terrorismo e l'orrore del sonno interrotto

Un po’ s’assopisce, un po’ trema, l’Europa. 
L’europeo è questo, almeno nella parte occidentale: si risveglia, si guarda attorno con occhi strabuzzati per l’orrore del sonno interrotto. Poi viene uno, gli dice che va tutto bene e l’europeo riprende a dormire.
Ma verrà il tempo e la promessa sarà liberata. La bestia, che per alcuni non c’è, uscirà definitivamente.
Se solo aveste origliato quando era il momento avreste sentito il suo umore ribollire, mentre i battiti del tempo colpivano sempre più forti.
La bestia è già passata, ha già ucciso. Gli europei sono stati avvertiti: il nido sarà lacerato, i figli dilaniati.
Gli europei sono dei vivi fra i morti, o dei morti viventi, cambia poco.
A Nizza “giaceva come un morto in miniatura anche una bambola” [E. Junger].
Il nostro sangue è stato profanato, profanati i nostri corpi scaraventati in aria.
La nostra bocca scatta come una molla e si spalanca ad ogni atto di terrorismo per poi richiudersi meccanicamente non appena viene uno a dirci che va tutto bene, quel pacifista d’amor ammorbante che abita i campi arrossati d’Europa, come un ratto voglioso stridendo “pace! pace!”
Inebriati dai colori e dagli aromi orientali, i pacifisti emettono, ritti sui piedini, gridolini di piacere che hanno qualcosa di eccitante per i terroristi, ma in verità il piacere è tutto loro, dei terroristi appunto.
E mentre il pacifista si fa fregare amabilmente [per non dire altro] dal terrorista, l’europeo ripulisce con cura il tappetino di casa dal sangue dei vicini e dopo il lutto di convenienza riprende a vivere invariabilmente la sua stessa assenza.

(pubblicato su www.atuttadestra.net)









Schopenhauer e la minestra riscaldata

A guardare l’umanità essa sembra un congresso permanente di pensatori, di filosofi e di critici. Ma
Arthur Schopenhauer
vediamo cosa ne pensa Schopenhauer, il filosofo che fece dire alla natura “l’uomo non è nulla”.
“Odo il ruotare del mulino, ma non vedo la farina”. Per Schopenhauer è il pensare a vuoto, anzi il non pensare, è la bancarotta del pensiero, nulla avendo da produrre e da scambiare, cioè pensieri. E se non c'è motivo di non credere che anche gli animali siano capaci di pensare, qualche dubbio è legittimo [oh ironia!] tra gli uomini, che spesso muovono la bocca quasi avessero un boccone di cose intelligenti per poi scoprire che stanno masticando il nulla. E dunque non è impertinenza interrompere chi non dice nulla.
Su certi uomini, dice il filosofo cinico, il pensiero è una caricatura della fronte. Neppure un sussulto di sopracciglio potrebbe far credere che c'è vita.
Un vuoto nel capo, sovente celato con abbondanza di particolari e di pensieri altrui, in mancanza di propri; del peso di tale carico si rallegrano e lo esibiscono soprattutto gli eruditi.
Qual e’ la sua strada spesso non si capisce, il pensiero è in certuni altri un pensiero sfuggente.
Schopenhauer non lesina né elemosina. Leggete il suo trattatello sull’arte di insultare, potrebbe servirvi.
Guardare un libro è spesso guardare un cadavere.  E chi non piangerebbe davanti ad un pensiero morto? [oh ironia!]
Sopravvive la povera vedova e l’orfano grazie alla minestra riscaldata di pensieri altrui. È la repubblica delle vedove e degli orfani, e dei dotti che li assistono. Salvo che molti dotti che danno il braccio alla vedova ricevono essi stessi in prestito da altri.
Schopenhauer non ama nessuno, né i dotti né gli ignoranti: in questo è il suo egualitarismo. Non v’è numero di parole che faccia di un uomo un dotto o un ignorante ma il possesso dell’intelletto che tutto muove, anche se stesso, e che sta come goccia nel deserto e condanna alla morte di sete.

(pubblicato su www.electoradio.com/mag)
(pubblicato su www.ereticamente.net)